Gli errori formali commessi in buona fede nella domanda di pensione non possono ricadere sul lavoratore. Spetta all’Inps la valutazione e la certificazione dei requisiti previdenziali. Accogliendo un ricorso patrocinato dal legale di Inca Lombardia (avvocato Roberta Palotti), la Corte d’Appello del tribunale di Milano nella sentenza n. 24/2022, ha respinto l’interpretazione restrittiva di Inps, secondo cui è legittimo respingere la domanda di una prestazione previdenziale se in essa viene indicato un riferimento normativo sbagliato, anche se il titolare della richiesta è comunque  in possesso dei requisiti contributivi e anagrafici per il pensionamento. 

Confermando la pronuncia di primo grado del Tribunale di Pavia n. 273/2021, la Corte d’Appello ha condannato l’Inps a corrispondere i ratei di pensione sin dalla prima richiesta avanzata da un lavoratore “esodato”, licenziato a seguito della cessazione di attività dell’azienda per cui lavorava, in liquidazione coatta amministrativa, che aveva fatto richiesta di pensionamento anticipato avvalendosi dell’ottavo provvedimento di salvaguardia (legge 232/2016), rientrando in una delle fattispecie indicate nella legge, ma non in quella espressamente indicata nella richiesta. Tanto è bastato all’Inps per rigettare la domanda di pensione, che invece la Corte d’Appello di Milano ha ordinato di accogliere poiché il lavoratore era in possesso dei requisiti di legge, anche se rientrante in una casistica diversa rispetto a quella specificata.        

Il caso esaminato è simile a tanti altri su  cui la giurisprudenza sta acquisendo una certa letteratura, anche grazie all’attività di contenzioso dell’Inca Cgil, ribadendo il principio che "la domanda amministrativa all'Inps per ottenere una prestazione previdenziale non ha natura di negozio giuridico” e se contiene tutti gli elementi necessari all’Inps per valutare la sussistenza dei requisiti di legge, l’Istituto ha l’obbligo di procedere senza “opporre formalistiche interpretazioni delle norme” (Cass. n. 14114 del 2019, Cass. 30419 del 2019).   

Il riferimento riguarda il fatto che nella domanda di pensione di anzianità in salvaguardia, inoltrata  all’Ispettorato territoriale del lavoro, come prevede la norma, il lavoratore faceva scaturire il licenziamento da accordi sindacali e non come sarebbe stato più giusto indicare per cessata attività dell’azienda, che pure rientra nelle fattispecie indicate dalla normativa. Neppure il ricorso amministrativo avviato dall’Inca, per conto del proprio assistito, ha fatto cambiare idea all’Inps, che rigettava la richiesta per "mancanza dei requisiti previsti per il diritto alla salvaguardia legge 232/2016". Una decisione grave che ha costretto il lavoratore ad adire le vie legale per vedersi restituire il suo diritto. 

Sulla scorta degli elementi esaminati, la Corte D'Appello di Milano ha così statuito: "In applicazione, quindi, dei principi sostanzialistici affermati dalla Suprema Corte, l'assicurato, pur indicando erroneamente la lettera d) che identificava la casistica cui apparteneva ai fini dell'accesso alla salvaguardia, ha messo comunque in grado l'Inps di verificare la sussistenza dei requisiti per beneficiare della salvaguardia sub lettera a).