Quando un lavoratore commette un errore nella compilazione della domanda di pensione, lâInps deve riconoscergli la possibilità di rettificarlo, senza danneggiarlo nel riconoscimento integrale del diritto. Eâ quanto in estrema sintesi ha deciso il Tribunale di Palermo nella sentenza n. 3723, pubblicata lâ11 ottobre scorso, accogliendo il ricorso patrocinato dal consulente legale di Inca Cgil, Paolo De Palma e al contempo ha condannato lâInps al pagamento degli arretrati non riconosciuti  oltre agli interessi legali maturati.
In questo caso, il lavoratore si era visto respingere la domanda di pensione con Quota100, nonostante avesse i requisiti, perché nel compilare la richiesta aveva indicato erroneamente come fondo e gestione competenti quello dei Coltivatori Diretti/Coloni Mezzadri. Errore che aveva cercato di correggere chiedendo allâInps il riesame della richiesta, anche questo respinto, cui è seguita una seconda domanda di pensione, questa volta accolta, ma con il posticipo della decorrenza di diversi mesi.
Una interpretazione che il Tribunale ha ritenuto infondata sottolineando come âin presenza di simili dati di fatto, lâamministrazione avrebbe senzâaltro dovuto consentire la rettifica in conformità al principio di correttezza e di buon andamento dellâattività amministrativaâ.
Inoltre, richiamando lâordinanza n. 74/2020 della Suprema Corte, il giudice ha ricordato che âIn tema di prestazioni previdenziali ed assistenziali, al fine di integrare il requisito della previa presentazione della domanda non è necessaria la formalistica compilazione dei moduli preposti dallâInps o lâuso di formule sacramentali, essendo sufficiente che la domanda consenta di individuare la prestazione richiesta affinché la procedura anche amministrativa si svolga regolarmenteâ.
Sempre in tema di interpretazioni restrittive di Inps, vale la pena ricordare unâaltra sentenza pronunciata qualche mese prima dallo stesso Tribunale (n. 464/2021),  che aveva come oggetto del contendere la sospensione dellâindennità di mobilità , operata da Inps ai danni di una disoccupata che, secondo lâIstituto, avrebbe mancato di comunicare lâinizio di unâattività di lavoro autonomo, nonostante il reddito percepito a tale titolo fosse ben al di sotto  del limite reddituale imposto dalla normativa (4.800 euro annui).
Dopo aver addirittura messo in discussione il diritto ad agire per vie legali, invocando la decadenza triennale, anche in questo caso, lâInps è stato condannato al pagamento di tre anni di indennità di mobilità , perché, secondo le norme vigenti, ha ricordato il giudice, il lavoratore in mobilità ha la facoltà di svolgere attività di lavoro subordinato a tempo parziale, purché ne derivi âun reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizioneâ, conservando in tal modo lo stato di disoccupazione.